Complice la pandemia, i ragazzi che studiano a casa si sono triplicati nel giro di tre anni, dai 5.000 circa del 2018/19, ai circa 15.000 del 2020/21 (dati del Ministero dell’Istruzione pubblicati da Adnkronos).
Pandemia a parte, l’homeschooling è il più delle volte una precisa scelta delle famiglie, che, insoddisfatte del sistema scolastico, decidono di offrire ai propri figli un’esperienza alternativa.
Istruzione parentale: cos’è?
L’istruzione parentale, è una forma alternativa di istruzione che consente ai bambini/ragazzi di studiare a casa, seguiti dai genitori o da tutor, sostenendo poi un esame a scuola, per essere ammessi all’anno successivo.
Le motivazioni principali di tale scelta sono:
- offrire ai bambini un tempo più flessibile
- rispettare i loro tempi di crescita e maturazione
- incentivare la loro curiosità e il loro desiderio di esplorare liberamente
- rafforzare la loro autonomia nello scegliere e organizzare le attività.
L’istruzione parentale non segue i programmi scolastici ministeriali, non utilizza i libri di scuola, non prevede compiti, almeno non come quelli assegnati a scuola. Spesso i genitori seguono teorie educative, quali quelle montessoriana o steineriana, che più di altre sottolineano la difesa dell’autonomia e della libertà del bambino nelle sue conquiste di crescita.
Se i genitori non si sentono sufficientemente preparati per specifiche materie, vengono affiancati da tutor o insegnanti. Ai bambini viene garantita l’occasione di socializzare con i coetanei facendoli partecipare ad attività sportive o frequentando luoghi ricreativi.
Sicuramente la scuola tradizionale ha mostrato negli anni e continua a mostrare diverse criticità, e la pandemia non ha fatto altro che metterne in luce limiti e rigidità. Purtroppo, con la sanità, rimane ancora il settore sul quale si investe poco o niente, a fronte invece delle tante risorse che richiederebbe.
Sono convinta però, che la scuola, e la scuola pubblica in particolare, rimanga un’esperienza vitale e insostituibile per i nostri figli.
E non si tratta solo di “istruzione”, anche se, per quanto un genitore ne sappia, non è detto che possieda la capacità di trasmettere le conoscenze, che appartiene invece ai bravi insegnanti, che si sono formati per questo.
Perché andare a scuola allora?
Stare in classe con altri 20/25 coetanei, ciascuno diverso dall’altro per personalità e interessi, condividere un adulto con gli altri bambini, confrontarsi con adulti diversi dai genitori, rispettare i ruoli, le opinioni e i tempi degli altri, è una cosa che si impara a scuola.
Andare a scuola significa uscire di casa, allentare il legame con le figure parentali, entrare in uno spazio anche fisico diverso, che costringe a confrontarsi con le regole della convivenza sociale e del rispetto delle cose, oltre che delle persone.
Andare a scuola significa scandire i tempi dello stare fuori e dello stare a casa, delle vacanze e del tempo lavorativo/di studio, apprendere routine che vanno rispettate, come alzarsi, prepararsi in tempo, preparare il materiale, organizzare il lavoro pomeridiano.
Significa confrontarsi con la frustrazione, e a volte (spesso?) con la competizione e l’ingiustizia. Non difendo questi due ultimi aspetti, né li valuto come ineluttabili, anzi, andrebbero eliminati da un sistema scolastico che voglia davvero curare la motivazione e l’interesse degli studenti.
Tuttavia, sono aspetti che fanno parte della vita sociale e lavorativa, e farvi fronte è una capacità che i nostri figli devono apprendere nel loro percorso di crescita.
Penso infine all’insostituibile ruolo che riveste la scuola nel cogliere eventuali disagi dei ragazzi e situazioni familiari critiche, che altrimenti rimarrebbero invisibili.
La scuola pubblica è un’agenzia educativa e socializzante fondamentale nella crescita dei nostri ragazzi, e il contributo dei genitori deve essere quello di sostenerla, anche con critica costruttiva, ma sempre con collaborazione e rispetto, non di rinuncia o rifiuto.
Natalia Sorrentino, psicologa e psicoterapeuta